Ha pagato sulla sua pelle le conseguenze della guerra civile in un paese soffocato dal regime militare. Nobel per la pace nel 1992, Rigoberta non ha mai smesso di alzare la voce per difendere i diritti umani. Mettendo in atto doti tipicamente femminili. Come la gentilezza, l’amore e il perdono…
di Alessandra De Tommasi
Ha un sorriso misurato e un po’ diffidente: aspetta qualche secondo prima di presentarsi, appena il tempo di “pesare” l’interlocutore. Poi stringe le sue mani piccole ma vigorose attorno alla mia e parla con la naturalezza di un’amica. Rigoberta Menchú indossa l’abito tradizionale maya con orgoglio: tzute, la stoffa usata come copricapo, huipil, la caratteristica blusa, e una coloratissima gonna lavorata a mano. Ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1992, quando era poco più che trentenne, e oggi, a distanza di oltre due decenni, continua ad alzare la voce per il suo Paese, il Guatemala, dove ha perso la famiglia e tanti amici, vittime di un lunghissimo genocidio: la dittatura militare ha scatenato una guerra civile durata 36 anni. Oggi la denuncia prende la forma di un documentario sulla sua vita, Daughter of the Maya (La figlia dei Maya, che ha presentato in anteprima al Festival della Televisione di Monte Carlo. La incontro pochi minuti prima della proiezione e non posso non pensare a un’altra figura femminile che, nonostante la presenza minuta, mi ha trasmesso una grandissima forza, Madre Teresa di Calcutta: tutte e due posano lo sguardo su di te e ti leggono dentro.
Signora Menchú, nessuno le ha mai chiesto perdono per la morte di tanti suoi cari, tra i quali il padre e i fratelli. La dittatura ha compiuto un vero e proprio genocidio nei confronti della sua gente. Eppure lei continua a rispondere alla violenza con la gentilezza.
Ho vissuto per 36 anni la lotta di frontiera e ho imparato che il tempo e la pazienza sanano le ferite, e non parlo solo di quelle fisiche, della guerra. Certo, mi sono sentita straziata, impotente, arrabbiata. Ma la rabbia è uno stadio naturale nell’elaborazione di un dolore. Bisogna superare quel primo stato d’animo e passare oltre.
Vuol dire che la serenità, persino la felicità, sono possibili dopo tante sofferenze?
Lo sono, eccome! Io, nonostante tutto, mi sento fortunata perché custodisco una memoria collettiva e so che quel tesoro, lacrime incluse, può fare la differenza nel futuro.
Non ho potuto fare a meno di notare suo marito, al suo fianco anche in questo momento, eppure discretamente in disparte quando lei parla. Sembrate molto uniti.
Siamo stati benedetti da una bella famiglia. Abbiamo due figli: Mash, 21 anni, e suo fratello Tzunun, che è morto all’età di tre anni per un problema renale.
Mi rattrista molto saperlo.
Non sia triste, io non lo sono: lui mi dà coraggio ogni giorno, mi aiuta e mi fa sorridere.
Come sono le donne oggi, secondo lei?
Sono innanzitutto capaci di prendersi cura di se stesse. In una parola? Sono liber. Sanno bilanciare carriera e sfera privata, tenendo ben salde le redini della propria vita. Insomma, oggi le donne sono figure “al comando”.
Si sente spesso parlare di pace e armonia, ma come si raggiungono nel concreto?
A piccoli passettini, anzi minuscoli, iniziando dalle creature più minute del pianeta, con azioni di gentilezza e bontà verso ogni essere vivente, dagli animali ai fiori. Un gesto può fare la differenza: un saluto a un anziano, un aiuto all’asilo di quartiere, un consiglio a un ragazzo più giovane, un favore a un vicino di casa. La pace, infatti, non è un ideale astratto, lontano, vuoto. È un atto d’amore. La pace parte dalla cultura, dall’educazione. Dà senso alla vita, troppo spesso martoriata dalla violenza del mondo. E non parlo di conflitti armati, ma di bambini picchiati e abusati persino in famiglia. Questi orrori dentro le mura domestiche innescano azioni aggressive, che poi su ampia scala diventano una guerra. Oggi, quando guardo i rifugiati siriani, non posso non ripensare al mio esilio.
Nel 1981 è stata costretta ad andarsene in Messico. È tornata in Guatemala solo nel 1997, dopo gli accordi che hanno posto fine alla guerra civile. Cosa ricorda di quel periodo lontano da casa?
Ho pagato sulla mia pelle le conseguenze della tirannia e ho perso tutto. Dire di no allo spargimento di sangue e alla guerra mi ha portato via da casa, ma non ho mai pensato alla pace come utopia, l’ho sempre vista come una missione, un dovere. Sentivo che toccava a me, come a tutti del resto, puntare sulla speranza di un futuro migliore. Un detto Maya dice: “La pace inizia dal rispetto”. Ed è vero.
La donna può essere portatrice di pace in un modo tutto suo?
Il pianeta è donna perché tutti noi siamo nati da una madre che genera e protegge. Siamo noi donne l’esempio della società, spetta a noi costruire un ambiente sereno per i nostri figli e per la nostra comunità. La figura femminile racchiude un simbolismo fortissimo: porta sulle spalle il peso del mondo, è una leader, un esempio, un faro per chi la circonda. Ma può esserlo solo se riconosce il proprio valore, abbraccia la propria natura e prende coscienza delle proprie potenzialità.
Come si fa ad “abbracciare la propria natura”?
Innanzitutto con l’autostima. È un dovere che una donna ha verso se stessa e verso gli altri, perché la donna moltiplica l’energia che possiede, essendo stata creata con un valore immenso: dà la vita, è la custode della famiglia, insegna ai figli a condividere. E poi con l’atteggiamento: deve imparare a dire di no. A volte ciascuna di noi pensa di potercela fare da sola, di dover controllare tutto altrimenti vale di meno. Be’, non è così: delegare è una delle qualità fondamentali per un buon leader.
Una donna al comando è più clemente?
Dipende dal significato che si dà a questa parola. Le persone che dipendono da lei devono sapersi guadagnare quello che ottengono. Un figlio, per esempio, non può averla vinta sempre: per il suo bene deve ricevere dei rifiuti, imparare a capire che ci sono dei paletti, dei limiti, delle regole da rispettare.
Come si fa a trovare la pace dentro di sé quando, per fare un esempio, suo marito la tradisce?
Purtroppo oggi il matrimonio viene affrontato a cuor leggero: capita più spesso che un uomo si sposi nello slancio dell’attrazione fisica, senza avere la maturità affettiva necessaria per portare avanti un impegno con coerenza. Decidere di vivere insieme per sempre vuol dire aver trovato quella complementarietà che mette la coppia al primo posto.
A volte non succede, però.
In quel caso la donna deve pensare alla famiglia e fare di tutto per salvaguardare quell’unità, principalmente per l’amore dei figli, se ci sono. Frantumare l’armonia familiare vuol dire incrinare le basi della società. Certo il sacrificio richiesto è immenso.
E quando è un uomo ad andarsene?
Allora una donna fa famiglia con i suofigli, resta sempre madre anche quando, non per scelta sua, smette di essere moglie. In ogni caso le viene chiesta quella famosa doppia forza di cui parlavo prima. Perché la pace è donna.
Rigoberta Menchú, 57 anni, è nata in Guatemala. Sesta figlia di un’ostetrica e di un contadino che si batteva per far valere i diritti dei braccianti, a 5 anni è costretta a lavorare nelle terre dei latifondisti in cambio di un misero salario. Ha sempre lottato, non solo in Guatemala, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni. La sua famiglia appartiene ai Quiché, una popolazione che discende dai Maya.
Per saperne di più
Il documentario Daughter of the Maya fa parte di Nobel Legacy Film Series, una collana di lungometraggi prodotta da PeaceJam, fondazione che diffonde tra i giovani il pensiero dei Nobel per la pace. Per conoscere Rigoberta potete leggere il libro Mi chiamo Rigoberta Menchú, best seller dell’antropologia Elisabeth Burgos