L’Importanza del Contatto Corporeo Madre-Figlio

L’Esogestazione e l’importanza del contatto corporeo nella relazione madre-figlio. Ashley Montagu, noto antropologo, scienziato e umanista inglese, divulgò all’inizio degli anni settanta, attraverso il suo libro “Touching: the Human Significance of the Skin” (pubblicato in Italia col titolo “Il linguaggio della pelle”), il risultato di approfonditi studi e ricerche circa alcuni importanti aspetti che caratterizzano la nascita degli esseri umani.  

Lo sviluppo psicofisico del neonato

La nascita del piccolo dell’uomo è determinata dalle dimensioni che il suo corpo e soprattutto la sua testa hanno raggiunto. 
Per la sopravvivenza del feto e della madre è perciò necessario che l’endogestazione (gestazione dentro l’utero) termini non appena raggiunto il limite delle dimensioni del capo compatibili con quelle del canale di parto, cioè molto prima della completa maturazione del feto stesso: quando viene alla luce, il bambino non è effettivamente pronto ad affrontare la vita. 

Di conseguenza, una parte significativa di ciò che poteva considerarsi lo sviluppo endouterino si trova, invece, ad avvenire nei mesi seguenti la nascita (da cui il termine “esogestazione”, cioè gestazione fuori dall’utero).

Nelle prime settimane il neonato è sostanzialmente disadattato alla sopravvivenza sia sotto il profilo motorio che cognitivo e sociale. Il suo prolungato periodo di immaturità comportamentale rivela quanto sia sottosviluppato e dipendente al momento della nascita, ma anche come il suo organismo sia profondamente immaturo dal punto di vista biochimico e fisiologico.

Il neuroscienziato Hugh Bostock ritiene che il termine dell’esogestazione venga a coincidere con lo stadio in cui il bambino comincia ad andare a carponi speditamente. Il feto sembra, infatti, completare la sua crescita ed il suo sviluppo in tale periodo. È interessante notare che l’esogestazione dura, approssimativamente, quanto l’endogestazione, circa nove mesi.

L’importanza del contatto pelle a pelle

Il bambino resta immaturo molto più a lungo del cucciolo del canguro e dell’opossum e tuttavia, mentre il piccolo marsupiale gode della protezione della borsa materna, al piccolo d’uomo non è dato questo vantaggio. 

Egli fa parte, però, di un’unità simbiotica con la madre.
Il piccolo, a causa della forzata e prematura interruzione della vita fetale vive, inoltre, un’esperienza di abbandono e di lacerazione, che può lasciare in lui segni profondi. Tuttavia la madre è in grado di sintonizzarsi con questa sofferenza, costruendo su di essa un rapporto empatico ed affettivo assai intenso con il proprio piccolo e può, quindi, esercitare nei suoi confronti un’azione di riparazione affettiva, ripristinando e restaurando con altri mezzi il legame che la nascita ha così traumaticamente turbato.

  
Ciò di cui ha innanzitutto bisogno il neonato è il contatto corporeo con la mamma: l’essere tenuto in braccio, l’essere portato addosso (ad es. con una fascia porta-bebè), la condivisione del sonno (specie notturno) nel lettone, l’essere allattato al seno, l’essere abbracciato e coccolato

Il desiderio del piccolo di rannicchiarsi contro il corpo della madre corrisponde al bisogno di un involucro, di una protezione, atti a riprodurre le condizioni dell’ambiente intrauterino. Inoltre, dato che il neonato in certi casi vive con turbamento il mancato controllo dei suoi movimenti involontari, egli necessita all’inizio di essere fisicamente “contenuto”.

Per il bimbo l’esser toccato, l’entrare in contatto con il corpo della madre (sentirne il calore, l’odore, il battito del cuore, il respiro) influisce sullo sviluppo cardiorespiratorio, sull’ossigenazione del sangue, sulla regolazione termica e sulla conseguente intensificazione dello sviluppo generale.

Questa relazione profonda con il bambino, inoltre, attiverà automaticamente nella madre, tutte quelle competenze che, seppur insite in ogni donna, potrebbero rimanere inespresse a causa di inveterate abitudini socio-culturali e/o personali
Purtroppo, la paura della madre (o di chi le vive vicino, sia esso compagno o parente stretto) di viziare il bambino porta spesso a deprivare il piccolo proprio dell’essenziale, primario e prezioso “nutrimento” di cui egli così tanto abbisogna. 

Esso è un atto di comunicazione pieno di significato, che crea i presupposti per un adeguato sviluppo psico-affettivo e cognitivo del bambino, determinante per la sua evoluzione nell’intero corso della vita.

“Portare i Bambini”: mantenere il contatto facilmente, in ogni situazione

Il “portare i bambini addosso” con fasce o altri supporti porta bebè, non è soltanto un modo comodo di tras-portarli. Si tratta, in primis, di una pratica antica e da sempre usata in molte culture nel mondo per spostarsi insieme ai propri bambini in modo pratico e sicuro. Ma oggi rappresenta anche una vera e propria modalità di cura e maternage adatta a crescere i propri bambini. Modalità che, qui in occidente, nell’ultimo decennio sta godendo di una riscoperta e di una decisa rivalutazione.

 “Portare i bambini” è un atto di accudimento naturale e istintivo. Questo è  dimostrato da diverse caratteristiche osservate sia nel bambino che nella madre che inducono a ritenere che il neonato si sia adattato, nel corso dei secoli, alla condizione di “portato”. 
Secondo questa visione, il “portare” è il comportamento biologico della nostra specie in risposta ai  bisogni di protezione, calore e nutrimento della prole. E’ la soddisfazione di questi bisogni primari che garantisce una crescita ottimale dei cuccioli. E i vantaggi di questa pratica sono numerosi per entrambi, portato e portatore.

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Fonti:

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